Il sanscrito e la creazione dell’universo

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Il sanscrito è una lingua antica appartenente alla famiglia delle lingue indo-europee. In particolare fa parte del sottogruppo indo-iranico, che individua  lingue con caratteristiche molto simili (vedi le similitudini fra Vedico e Avestico o Sanscrito e Antico Iranico), parlate nella zona dell’ Iran e dell’India.

E’ molto interessante sapere che il Sanscrito condivide un’origine comune con centinaia di altre lingue, come Greco, Latino, Tedesco, Hindi, Urdu, Bengali, Marathi, Kashmir, Panjabi, Nepalese e Rumeno. ll Sanscrito Vedico, nella sua forma pre-classica, risale alla più anticha famiglia linguistica Indoeuropea. Il più antico testo Sanscrito conosciuto è il Rigveda, una collezione di oltre mille inni, che sono stati composti approssimativamente durante il II millennio a.C. Effettivamente si dice che il Sanscrito costituisce il sostrato di molte altre lingue. Quindi, dal punto di vista della linguistica, si potrebbe affermare che le parole e i suoni sanscriti siano il fondamento di quelli delle lingue moderne. Per esempio, il termine inglese per zucchero e il termine tedesco “Zucher” sono derivati dalla parola Sanscrita Sharkara. Addirittura sembrano essere in relazione con il Sanscrito alcune lingue Africane, come il Kisuaheli. In questa lingua, ad esempio, il termine per leone è “Simba”, mentre in Sanscrito è Simha. La linguistica ha riconosciuto che più di 170 lingue derivano dal Sanscrito o che comunque ne sono fortemente influenzate. (www.om-healing.org)

La caratteristica unica del sanscrito è quella di non essere una lingua naturale (come il latino e il greco, anche loro lingue antiche di famiglia indo-europea) ma una lingua “grammaticale”.

Il sanscrito cosiddetto classico, quello con cui l’India brahmanica ha prodotto codificato e  trasmesso tutto il suo sapere per più di 1500 anni, cioè circa dal I  al XVIII secolo d.C., si fonda sulla grammatica di Patanjali, vissuto probabilmente intorno al I a.C.

La grammatica di Patanjali a sua volta si basa, “completandoli” attraverso la forma letteraria del commento, sui lavori di altri due grammatici, Katyayana (ca II a.C) e Panini (ca IV a.C.).

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Per questo il sanscrito pur essendo utilizzato per quindici secoli in un’area geografica immensa (tutto il subcontinente indiano e parte delle terre che si affacciano sull’Oceano Indiano) e per trattare di qualunque argomento, è rimasto sempre se stesso (pur con profonde differenze stilistiche e lessicali a seconda degli ambiti letterari): perché viene prima, e una volta per tutte, la sua grammatica, completa e perfetta in quanto capace di analizzare ogni meccanismo linguistico lasciando al contempo la possibilità alla lingua di essere produttiva sul piano semantico senza per questo cambiare la sua struttura profonda, quindi di stare al passo con la trasformazione del pensiero e della cultura rimanendo essa stessa fuori da ogni cambiamento.

Ma come può la grammatica sanscrita precedere il sanscrito stesso?

Il punto è che il più antico dei grammatici menzionati, Panini, su cui l’opera degli altri si basa (nel senso che Katyayana aggiunge alcune osservazioni grammaticali e Patanjali commenta il tutto e fa delle sue aggiunte, “conclusive”) si dedica in realtà allo studio della lingua che noi chiamiamo vedica (e che lui chiama “i versi”) e alla definizione di una lingua corretta (che lui chiama “parlata”), elevata, appannaggio della classe sacerdotale.

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Nell’opera di Panini si sviscerano i meccanismi grammaticali fondamentali del vedico (che sono gli stessi del sanscrito), quindi principalmente l’utilizzo dei casi (concetti di soggetto, oggetto e complementi vari), i concetti di sostantivo aggettivo e pronome, i generi e i numeri,  la coniugazione verbale (concetti di persona, modo, tempo, voce, ecc.) e l’utilizzo degli indeclinabili (particelle, avverbi, forme verbali non coniugate).

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Ma oltre a ciò (e in questo sta la vera fondazione del sanscrito) la grammatica di Panini definisce le regole morfologiche “dietro” alla formazione delle parole, identificando i concetti di radice, suffisso, terminazione e definendo le regole con cui tali elementi minimi della parola agiscono e si uniscono fra loro.

Evidentemente l’opera di Panini non è il risultato dello sforzo di un singolo, ma il coronamento di una tradizione di studio della lingua del rituale che proseguiva da almeno mezzo millennio e che aveva già fissato la fonologia della lingua, anche quella passata al sanscrito (per questo ne conosciamo con certezza la pronuncia) e si era dedicata a studi di etimologia.

Furono quindi Katyayana e Patanjali che completando il lavoro di Panini seppero affrancarsi sia dalla lingua parlata dai sapienti (anch’essa per definizione soggetta a cambiamenti) che dalla lingua dei Veda (molto troppo arcaica e stratificata), in direzione di una lingua agile e perfetta perché autoregolantesi attraverso la sua grammatica.

Dopo Patanjali è sanscrito solo quel che rispetta le regole definite dall’opera dei tre grammatici, che verrà studiata e ristudiata (nonché riassunta in opere più snelle) per sfruttare tutte le potenzialità che le loro regole offrono.

Sempre più il sanscrito diventerà quindi lingua rimossa dalle lingue naturali (che continuano ad evolvere seguendo uno schema molto simile a quello che dal latino porta alle lingue neolatine, che possiamo ripercorrere partendo dal vedico e arrivando alle lingue neo-indiane attraverso i dialetti medio-indiani, o pracriti), diventando lingua di cultura e di potere poiché legata alla casta brahmanica, depositaria del sapere tradizionale e “ufficiale”. (www.sanscrito.it)

Pertanto, questa santa struttura della lingua, qual è il sanscrito, la possiamo cogliere anche come emanazione d’ispirazione divina, rivelata a questi saggi iniziati che la definirono, che ha permesso di concretizzare il significato profondo del Verbo, associando in modo perfetto le energie creatrici fonematiche essenziali (le lettere dell’alfabeto) al suono e alla forma corrispondenti, in modo da poter esprimere quanto meglio una certa energia dell’universo attraverso un’emanazione sonora (la parola pronunciata) e un’emanazione visiva (la parola scritta, il segno grafico).

Non è quindi un caso che l’alfabeto sanscrito sia formato da 50 fonemi (7X7+1); cosi come la simbologia dei tratti grafici, a partire dalle prime due vocali, la A – associata a Shiva, il principio maschile supremo – e la I – associata a Shakti, il principio femminile supremo – che generano il rimanente universo di suoni creatori. Nessun aspetto viene tralasciato nella creazione di questa lingua definita appunto “san scritto”, poiché capace di metterci in risonanza con le energie creatrici dell’universo (il logos creatore), da cui derivano i mantra, capaci di generare nell’iniziato che li usa coscientemente un’espansione della coscienza in base allo specifico campo di forza sottile generato da ogni fonema.

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